OMAGGIO AL PRESIDENTE
La notorietà fa bene, rende lo spirito giovane, tonifica, sublima il disagio dell’anonimato. Un training autogeno di eccellenza. Ma per restare in auge bisogna essere bravi, massimamente competenti. Il pressappoco porta alla caduta verticale e travolge anche quel minimo di notorietà conquistato in una notte di mezza estate. La procura di Palermo ha affidato a tre saggi la propria difesa nel conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo, davanti alla Corte Costituzionale. Nella memoria di costituzione i Proff.ri Avv.ti Alessandro Pace, Giovanni Serges e Mario Serio si sono fatti prendere la mano; forse anche loro conquistati dall’importanza del mandato, non hanno svolto solo argomentazioni giuridiche, ma si sono avventurati in giudizi estranei al compito difensivo. E’ vero che il Capo dello Stato non deve essere ritenuto un monarca, secondo il brocardo legibus solutus , “non soggetto alla legge“. Il Presidente Napolitano lo sa bene e tale non si sente. Lo provano la Sua storia personale, i Suoi comportamenti lungo gli anni che vanno dalla seconda guerra mondiale fino a quando è stato eletto, appunto, Presidente della Repubblica Italiana. Lo dimostra il Suo limpido, superbo agire nell’esplicazione del ruolo e della funzione alla quale è stato chiamato. Certo, il Presidente Napolitano non ha bisogno della mia povera difesa. E non mi permetto di difenderlo, sarebbe presuntuosità. Intendo solo segnalare ai cittadini italiani, sia a quelli che hanno un colore politico sia a quelli che non si rifanno ad alcun colore, dalle pagine di questo giornale che mi ospita, l’arroganza imperiale di certi magistrati, più rivolti all’impegno politico che a quello giudiziario, che prediligono i passaggi in TV, i convegni e congressi di partito che non restare chini sui libri di diritto. Voglio dire ai cittadini italiani che una piccola percentuale di Magistrati intende usare la propria posizione per svolgere attività politica a tutto campo, partecipando direttamente al dibattito politico nazionale, senza rischiare il giudizio degli elettori e strumentalizzando l’enorme potere coercitivo che gli deriva dal ruolo rivestito. Tanti singoli autocrati che sotto il falso ritornello “mi limito ad applicare la legge” (un feticcio pieno di lacune e contraddizioni) tiranneggiano il malcapitato di turno, che è quasi sempre un politico per poter conseguire l’anelata visibilità. E più alto ed importante è il personaggio politico maggiori ne sono gli effetti sul piano pubblicitario. Si potrebbe affermare, parafrasando, “la pubblicità è l’anima della notorietà (per certi Magistrati)”. L’applicazione della “legge” può anche risultare ineccepibile, indipendentemente dalle ragioni del malcapitato. Una delle poche frasi intelligenti che disse Di Pietro quando era Ministro dei lavori pubblici fu quella di sostenere che le istruttorie per l’assegnazione degli appalti sarebbero risultate tutte conformi alla legge, nonostante che il designato appaltatore fosse l’amico dell’amico.
I luoghi di elezione dei nostri eroi con la pistola ad acqua sono sempre gli stessi: la Procura di Palermo (dopo 60 anni la mafia è ancora viva e vegeta), quella di Milano e sovente anche quella di Napoli, salvo altre.
E’ molto grave che qualche baroncino dell’Università (che ci legge gli articoli della costituzione nel tempio della democrazia – trasmissione Ballarò- cfr. Prof. Pace) si permetta in un atto difensivo giudiziale di esprimere giudizi e opinioni sulla parte avversa, invece di rispettare i confini delle argomentazioni giuridiche. Sfugge a questi professorini che l’attribuzione di una competenza politico-istituzionale consiste in una attività ben più ampia e diversa da quella del rispetto di una procedura amministrativa o giudiziaria, secondo la norma di riferimento. Non è difficile capire che il compito e le funzioni di un Presidente della Repubblica, di un Presidente del Consiglio dei Ministri, di un Ministro non possono limitarsi a seguire semplicemente i dettati di protocolli, pur necessari, ma l’agire va verificato nell’ambito del perimetro costituzionale e delle norme generali di alta amministrazione. Il board di difesa della Procura palermitana sostiene la irresponsabilità del Presidente per gli atti funzionali, ma non per quelli extrafunzionali. La norma generale fissa un principio generale nell’ambito del quale l’agire si presenta variegato e molteplice e non può essere ontologicamente rapportato ad una precisa condotta specifica. L’agire del Presidente della Repubblica è sempre di carattere istituzionale anche quando interloquisce direttamente con soggetti che si rivolgono a Lui per ogni problema, per ogni questione. I confini non possono non essere borderline. E’ come se un qualsiasi denunciante/querelante di un reato chiedesse la condanna del Magistrato per aver violato il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Migliaia di denunce/querele finiscono nel dimenticatoio, quando non si perdono in qualche porto delle nebbie. Paradossalmente, la triade difensiva nell’atto di difesa della Procura di Palermo paventa anche la violazione di tale principio: “infine, vi sarebbe una plateale violazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) su cui torneremo in conclusione”. Ma il principio è sistematicamente disatteso o applicato discrezionalmente, secondo una regola di opportunità mediatica (ovviamente non da tutti). Ed ancora “si osserva comunque che l’allegazione agli atti è una circostanza neutra, perché ogni atto di indagine nel momento stesso in cui vene compiuto, nasce all’interno di un determinato procedimento ed è quindi si per sé allegato a quel procedimento”. Proprio perché compiuto e, quindi, allegato determina la lesione delle prerogative del Presidente della Repubblica. Ed ancora “a proposito delle intercettazioni casuali o fortuite va detto che non solo l’art. 7 della legge n. 289 del 1989 non le vieta, ma non potrebbe vietarle, in quanto un divieto può avere ad oggetto una condotta volontaria, non un fatto fortuito”. Ed allora proprio perché fortuite e non volontarie tali intercettazioni possono essere immediatamente distrutte da P.M. senza l’intervento del GUP, al quale vengono poste tutte quelle questioni volontariamente assunte. I Magistrati non hanno tutti lo stesso DNA e non tutti nascono con il timbro di Magistrato, rigorosamente educati per il compito che faranno da grandi. L’acustica delle encomiabili intenzioni è ricca di parole, di promesse, di impegni puntualmente disattesi, falsificati, mancati. Nuovi e vecchi predicatori, esperti fai da te, rivoluzionari part-time, maître à penser del pressappoco si sono assunti il compito di riformare il Sistema Giustizia, di rendere la risposta della “Giustizia” rapida ed efficace. Ieratici magistrati, ineffabili giornalisti, potenti conduttori, si ammantano di attributi di autorevolezza, di una competenza che non possiedono, costretti ad abdicare all’uso della ragione, ci trascinano nell’abisso, all’esaurimento della sostanza vitale, della dignità della regola. Per il bene del Paese (come tutti amano ripetere) magistrati, ex magistrati, magistrati parlamentari, magistrati rappresentanti di categoria, magistrati consulenti, direttori di quotidiani, giornalisti di cronaca giudiziaria, anchorman/woman del diritto, sedicenti intellettuali di strada, cineasti, attori e cantanti, opinion maker, dovrebbero osservare un lungo periodo di silenzio, interrompete quelle repliche trentennali sulla condanna alla delegittimazione della Magistratura, sulla indipendenza ed autonomia, sulla obbligatorietà della azione penale, sul divieto di separare le carriere tra P.M. e Giudice, sul rispetto del lavoro del magistrato, sulla difesa della sua libertà, della democrazia, che è un combinato disposto che non guasta. Si è stabilizzato il falso sillogismo: “ tutti i magistrati applicano la legge”; “io sono un Magistrato”; “quindi applico la legge”. E allora…….allora accade che in qualche occasione la “legge” è applicata male, disattesa, non rispettata, elusa, truffata. La Magistratura in ogni epoca, in ogni Paese rappresenta un corpo della società, un elemento tra gli altri che compone lo Stato. Va esaminata per quello che è nel suo tempo e nel suo luogo e non per quello che dovrebbe essere. La beatificazione del “Magistrato” viene respinta dalla Giustizia quotidiana, dalle sentenze metropolitane, dalle attese siderali, dalla mancanza di legalità, dall’assenza delle regole. Una lunga catena di errori, giudizi imbarazzanti segnano il destino opaco dei simulacri della Magistratura che ha generato la sfiducia dei cittadini in una Giustizia sfigurata, polverizzata, da decenni di fallimenti, da inutili convegni e dibattiti. L’impatto emotivo dell’apparizione in TV tiene alto l’umore e contrasta la depressione, ma procura danni irreparabili alla credibilità delle Istituzioni. Anche nella Magistratura ci sarà bisogno un po’ da rottamare
Carlo Priolo
Si dice specialmente di soggetti che in regimi di tipo monarchico o anarchico possono (e non potevano) fare ciò che desiderano senza dare conto del proprio operato.
Ricordo i sorrisetto d’ordinanza del Presidente Fini, quando si recò a Messina a salutare quei quattro gatti di iscritti al nuovo partito “Futuro e Libertà”, che per emendarsi da un passato imbarazzante, andò ad ossequiare i Magistrati del luogo non trovò di meglio che copiare le festose frasette della Bindi che ci propina da anni: “con le toghe la democrazia è più credibile, con le toghe vince il volto pulito dell’Italia, con le toghe la legalità costituisce il fondamento della società”. Penosa piaggeria, in cerca di una perduta verginità democratica.
Quando toccava a Berlusconi far fronte a valanghe di intercettazioni telefoniche sbattute sulle prime pagine (spesso per nulla rilevanti dal punto di vista penale), il composito fronte avversario rispondeva che egli non era legibus solutus, che anche il Presidente del Consiglio doveva rispondere allo Stato di diritto e dar conto del suo operato — che egli non era al di sopra della legge.
Ora, lo stesso sciame di verginelle chiede a gran voce, non solo che non sia reso pubblico cosa si siano detti, in camera caritatis, l’ex Ministro degli Interni Nicola Mancino e Giorgio Napolitano. Sostiene che la Magistratura non può spiare il Capo dello Stato e, se l’ha spiato di sponda, a meno che non sia violato l’Art. 90 della Costituzione, le carte siano secretate. [1]
“Il divieto previsto dalla legge per il capo dello Stato è assoluto. Sarà la Corte a stabilire se tale divieto comporta anche l’inutilizzabilità”. Così il costituzionalista Valerio Onida in un’intervista al Corriere della Sera sul sollevamento del conflitto di attribuzione da parte del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nei confronti della Procura di palermo. “La legge 219 dell’89 – prosegue Onida – esplicitamente prevede che il presidente della Repubblica non possa essere sottoposto a intercettazione se non dopo essere stato sospeso dalle funzioni per alto tradimento o attentato alla Costituzione”. L’ex presidente della Corte Costituzionale ricorda, comunque, che “solo la Consulta può fare chiarezza e l’iniziativa del Quirinale va letta in questo senso. Solo la Corte può indicare la via corretta da seguire nel rapporto tra i due poteri”.
Secondo Onida, a muovere Napolitano sarebbe stato un forte senso di lungimiranza, giacché “nel decreto in cui viene sollevato il conflitto, non mostra alcun interesse diretto, ma sostiene che se lui tacesse si potrebbe precostituire un precedente suscettibile in futuro di incidere sulle prerogative del capo dello Stato”. Nonostante Napolitano abbia deciso, proprio a questo scopo, di citare nel suo comunicato Luigi Einaudi, il costituzionalista Onida ricorda che altre due figure hanno preceduto il presidente in carica nel sentiero impervio del conflitto tra poteri istituzionali. In particolare, infatti, si tratta del terzo caso assoluto nella storia repubblicana in cui un conflitto è sorto in cui direttamente su sollecitazione del Quirinale. Il primo a intervenire, elenca l’ex presidente della Consulta, fu Sandro Pertini: “Nel 1981 – ricorda Onida nell’intervista al “Corsera” – il Quirinale agì contro la Corte dei Conti che voleva estendere la sua giurisdizione ai bilanci dei vertici dello Stato”. Quindi, toccò a un altro presidente molto amato, Carlo Azeglio Ciampi, interpellare la Corte sulla possibilità – poi negata – che il ministro della Giustizia potesse sottrarsi all’atto di controfirmare una clemenza presidenziale.
Un distinguo, dalle parole di Valerio Onida, emerge, in ogni caso, per i membri del governo, i quali sarebbero del tutto estranei a eventuali effetti prodotti dal conflitto avanzato dal Colle. “La disciplina per i componenti del governo è totalmente diversa. Per loro – spiega – se indagati per reati ministeriali, non c’è divieto di intercettazione, ma una procedura autorizzativa di Camera o Senato, se non parlamentare”.
La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo.
Lo scontro tra poteri ruota attorno alla vicenda riguardante le intercettazioni delle conversazioni telefoniche delpresidente della Repubblica Giorgio Napolitano con l’ex ministro dell’Interno ed ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino, sottoposto a sorveglianza dai PM di Palermo per l’indagine sulla trattativa Stato-mafia.
La Consulta ha anche dato indicazioni sulla data di esame del ricorso, che dovrebbe avvenire intorno alla seconda settimana di novembre.
La Corte Costituzionale ha reso note le motivazioni con le quali ieri ha dichiarato ammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Quirinale nei confronti della Procura di Palermo.
Deve ritenersi «sussistente, allo stato – salvo il definitivo giudizio all’esito dell’instaurazione del contraddittorio – la materia di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte», si legge nel testo dell’ordinanza n. 218 (giudici relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo).
Nelle dodici pagine dell’ordinanza i giudici costituzionali spiegano come il ricorso presentato dal Capo dello Stato «é proposto a salvaguardia di prerogative del presidente della Repubblica che sono prospettate come insite nella garanzia dell’immunità prevista dall’articolo 90 della Costituzione».
Adesso il ricorso e l’ordinanza della Corte Costituzionale di ammissibilità del conflitto dovranno essere «notificati al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo entro il termine di trenta giorni» a cura del ricorrente, dunque dello stesso presidente della Repubblica. Le parti avranno poi altri 15 giorni per presentare eventuali memorie integrative.
ORDINANZA N. 218
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe
TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro
CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito
dell’attività di intercettazione telefonica, svolta nell’ambito di un procedimento
penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario
di Palermo, effettuata su utenza di altra persona, nell’ambito della quale sono state
captate conversazioni del Presidente della Repubblica, promosso dal Presidente della Repubblica con ricorso depositato in cancelleria il 30 luglio 2012 ed iscritto al
- 4 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2012, fase di ammissibilità.
Uditi nella camera di consiglio del 19 settembre 2012 i Giudici relatori Gaetano
Silvestri e Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con ricorso depositato il 30 luglio 2012, il Presidente della
Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, «per violazione degli articoli
90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne costituiscono
attuazione» – in particolare, l’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme
in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione),
«anche con riferimento all’art. 271 del codice di procedura penale» – nei confronti
del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, in
relazione all’attività di intercettazione telefonica, effettuata su utenza di altra
persona nell’ambito di un procedimento penale pendente presso la Procura della
Repubblica di Palermo, nel corso della quale sono state captate conversazioni dello
stesso Presidente della Repubblica;
che il ricorrente riferisce di come, con nota del 27 giugno 2012, l’Avvocato
generale dello Stato, su mandato del Segretariato generale della Presidenza della
Repubblica, abbia chiesto al dott. Francesco Messineo, Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale ordinario di Palermo, «una conferma o una smentita» di quanto
emergerebbe dalle dichiarazioni rese dal Sostituto procuratore Antonino Di Matteo
nel corso di una intervista rilasciata alla giornalista Alessandra Ziniti e pubblicata
sul quotidiano «La Repubblica» del 22 giugno 2012: ossia che sarebbero state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, considerate
allo stato irrilevanti, ma che la Procura di Palermo si sarebbe riservata di utilizzare;
che, con nota del 6 luglio 2012, il Procuratore della Repubblica – allegando una
missiva del giorno precedente, con la quale il dott. Di Matteo aveva rappresentato
come, in risposta ad una domanda «assolutamente generica» della giornalista sulla
sorte delle intercettazioni effettuate, egli si fosse limitato «all’ovvio richiamo alla
corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo degli esiti delle attività di
intercettazione telefonica» – aveva comunicato che l’Ufficio da lui diretto, «avendo
già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale
comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede[va]
alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da
effettuare con l’osservanza delle formalità di legge»;
che con successiva nota, diffusa il 9 luglio 2012, e con lettera pubblicata sul
quotidiano «La Repubblica» l’11 luglio 2012, il dott. Messineo aveva ulteriormente
affermato che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto
autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel
corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga
casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione
ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione»;
aggiungendo che, «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione
legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione
della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la
autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti»; che, ad avviso del ricorrente, la tesi del Procuratore palermitano non sarebbe
condivisibile, in quanto, alla luce dell’art. 90 Cost. e dell’art. 7 della legge n. 219 del
1989 – salvi i casi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione e con
l’applicazione del regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento
d’accusa – le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della
Repubblica, ancorché «indirette» od «occasionali», dovrebbero ritenersi
radicalmente vietate;
che detto divieto sarebbe, infatti, insito nella previsione dell’art. 90 Cost., in
forza della quale «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per
attentato alla Costituzione», ipotesi nelle quali «è messo in stato di accusa dal
Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri»;
che l’immunità prevista dalla norma costituzionale non consiste, infatti, solo in
una irresponsabilità giuridica per le conseguenze penali, amministrative e civili
eventualmente derivanti dagli atti tipici compiuti dal Presidente della Repubblica
nell’esercizio delle proprie funzioni, ma anche in una irresponsabilità politica,
diretta a garantire la piena libertà e la sicurezza di tutte le modalità di esercizio delle
funzioni presidenziali;
che, lungi dal costituire un «inammissibile privilegio», legato ad esperienze
ormai definitivamente superate e tale da incrinare il principio dell’eguaglianza dei
cittadini davanti alla legge, l’immunità in questione risulterebbe strumentale
all’espletamento degli altissimi compiti che la Costituzione demanda al Presidente
della Repubblica, nella sua veste di Capo dello Stato e di rappresentante dell’unità nazionale, intesi ad assicurare in modo imparziale, insieme agli altri organi di
garanzia, il corretto funzionamento del sistema istituzionale e la tutela degli interessi
permanenti della Nazione: prospettiva nella quale la statuizione dell’art. 90 Cost.
rappresenterebbe anche un limite alle attribuzioni degli altri poteri dello Stato;
che sarebbe, peraltro, del tutto evidente come, nello svolgimento dei predetti
compiti, debba essere garantito al Presidente della Repubblica «il massimo di libertà
di azione e di riservatezza», anche perché alcune delle attività che egli pone in
essere nel perseguimento delle finalità costituzionali – e di non poco significato –
«non hanno un carattere formalizzato»;
che la conseguente impossibilità di sottoporre a limitazioni la libertà di
comunicazione del Presidente risulterebbe confermata dall’interpretazione
sistematica delle norme di legge ordinaria che, in attuazione dei principi
costituzionali, ne disciplinano la posizione;
che, infatti, l’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 – disposizione
contenuta in una fonte legislativa esplicitamente «connessa» alle previsioni dell’art.
90 Cost., così da assumere un «ruolo integrativo» della norma costituzionale – vieta
in modo assoluto di disporre l’intercettazione di conversazioni telefoniche o di altre
forme di comunicazione nei confronti del Presidente della Repubblica, se non dopo
che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica;
che, pur essendo il divieto sancito con riferimento ai soli reati per i quali, in base
all’art. 90 Cost., il Presidente può essere messo in stato di accusa, avuto riguardo
alla intercettazione «diretta» delle sue conversazioni, sarebbe «naturale» la
concomitanza di un divieto, altrettanto assoluto, di intercettare (e, se del caso, di utilizzare) anche le comunicazioni captate in modo indiretto o casuale, trattandosi di
attività egualmente idonea a ledere la sfera di immunità del Capo dello Stato;
che il divieto assoluto di ricorso ai mezzi in questione di ricerca della prova,
enunciato in rapporto ai reati presidenziali, dovrebbe evidentemente estendersi,
inoltre, pur nel silenzio della legge, ad altre fattispecie di reato che possano a
diverso titolo coinvolgere il Presidente;
che, a maggior ragione, dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di
conversazioni del Capo dello Stato intercettate occasionalmente nel corso di
indagini concernenti reati al medesimo non addebitabili, come sarebbe avvenuto nel
caso in esame;
che, in conclusione, il divieto di intercettazione riguarderebbe anche le
cosiddette intercettazioni indirette o casuali, comunque effettuate mentre il
Presidente della Repubblica è in carica;
che, per tale ragione, i risultati delle intercettazioni operate malgrado il divieto
sarebbero assolutamente inutilizzabili e la relativa documentazione dovrebbe essere
immediatamente distrutta ai sensi dell’art. 271 cod. proc. pen., trattandosi di
intercettazioni eseguite «fuori dei casi consentiti della legge»;
che rimarrebbe inapplicabile, di conseguenza, la procedura di selezione delle
conversazioni nel contraddittorio tra le parti, delineata dall’art. 268, comma 4 e
seguenti, cod. proc. pen., in vista della trascrizione e dell’inserimento nel fascicolo
per il dibattimento;
che non sarebbe, del pari, riferibile all’ipotesi in questione la previsione dell’art.
269 cod. proc. pen., inerente all’obbligo di conservazione integrale dei verbali e delle registrazioni fino alla sentenza non più soggetta ad impugnazione, salva la
possibilità per il giudice di disporre in apposita udienza camerale la distruzione della
documentazione non necessaria ai fini del procedimento, ove richiesta dagli
interessati a tutela della riservatezza;
che neppure sarebbe ipotizzabile, d’altra parte, l’utilizzazione dei risultati delle
intercettazioni in procedimenti diversi, secondo quanto previsto dall’art. 270 cod.
proc. pen.;
che alla fattispecie considerata, infine, non sarebbe applicabile l’art. 6 della
legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della
Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche
dello Stato), che disciplina le intercettazioni indirette o casuali di conversazioni o
comunicazioni di membri del Parlamento, non potendo la posizione del Presidente
della Repubblica essere assimilata a quella del parlamentare;
che, infatti, solo i membri del Parlamento, e non anche il Capo dello Stato,
possono essere sottoposti ad intercettazione da parte del giudice ordinario, previa
autorizzazione della Camera di appartenenza, e solo ai parlamentari si riferisce il
citato art. 6 della legge n. 140 del 2003, quando stabilisce la necessità
dell’autorizzazione «successiva» per l’utilizzazione delle intercettazioni indirette o
casuali;
che la Corte costituzionale, d’altro canto, nel dichiarare, con la sentenza n. 390
del 2007, l’illegittimità costituzionale parziale della norma ora indicata, ha escluso
che l’autorizzazione sia necessaria quando le intercettazioni occasionali debbano
essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal parlamentare, confermando, così, che la disciplina della legge n. 140 del 2003 concerne solo le comunicazioni
dei componenti delle due Camere;
che, più in generale, riguardo alle intercettazioni occasionali eseguite nel corso
di indagini concernenti reati ascritti ad altri soggetti, la tutela del parlamentare
risponderebbe ad una ratio diversa da quella della tutela del Presidente della
Repubblica: rispetto al Presidente, detta ratio risiederebbe nella salvaguardia della
funzione; per il parlamentare, invece, nella sola protezione della sua riservatezza,
per la quale – come rilevato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 390
del 2007 – sarebbero ingiustificati livelli di tutela più elevati di quelli assicurati ad
ogni altro cittadino, non ricorrendo un pregiudizio per la funzionalità della Camera
di appartenenza, unico presupposto dell’autorizzazione prevista dall’art. 68 Cost.;
che, alla stregua delle considerazioni che precedono, sussisterebbero nella
fattispecie che dà origine al conflitto «precisi elementi oggettivi di prova» del non
corretto uso dei propri poteri da parte della Procura della Repubblica di Palermo, in
termini lesivi delle attribuzioni costituzionali del ricorrente: elementi consistenti
nell’avere «quantomeno» registrato le intercettazioni nelle quali era casualmente e
indirettamente coinvolto il Presidente della Repubblica, unitamente alle circostanze
– «pacifiche e non contestate» – che il testo delle telefonate è agli atti del
procedimento, che ne è stata addirittura valutata la «(ir)rilevanza» ai fini del
procedimento in corso e – soprattutto – che si ipotizza lo svolgimento di un’udienza
secondo le modalità indicate dall’art. 268 cod. proc. pen. per ottenerne
l’acquisizione o la distruzione; procedimento che, implicando l’instaurazione di un contraddittorio fra le parti sul punto, aggraverebbe gli effetti lesivi delle precedenti
condotte, rendendoli definitivi;
che il ricorrente Presidente della Repubblica chiede, pertanto, alla Corte di
dichiarare che non spetta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario
di Palermo «omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche
casuali di conversazioni del Presidente della Repubblica» di cui si discute, né
valutarne la «(ir)rilevanza», sottoponendole all’«udienza stralcio» disciplinata
dall’art. 268 cod. proc. pen.
Considerato che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata, a norma
dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a svolgere, senza
contraddittorio, una delibazione preliminare di ammissibilità del ricorso,
concernente l’esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua
competenza, con riferimento ai requisiti soggettivi ed oggettivi indicati dal primo
comma dello stesso art. 37, fermo restando che tale valutazione preliminare e
interlocutoria lascia impregiudicata ogni ulteriore e diversa determinazione, anche in
relazione alla stessa ammissibilità del ricorso;
che, nella specie, per quanto attiene all’aspetto soggettivo, la natura di potere
dello Stato e la conseguente legittimazione del Presidente della Repubblica ad
avvalersi dello strumento del conflitto a tutela delle proprie attribuzioni
costituzionali sono state più volte riconosciute, in modo univoco, nella
giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 200 del 2006 e n. 129 del 1981;
ordinanze n. 354 del 2005 e n. 150 del 1980); che questa Corte ha del pari riconosciuto, con giurisprudenza costante, la natura
di potere dello Stato al pubblico ministero, in quanto investito dell’attribuzione,
costituzionalmente garantita, inerente all’esercizio obbligatorio dell’azione penale
(art. 112 della Costituzione), cui si connette la titolarità delle indagini ad esso
finalizzate (ex plurimis, sentenze n. 88 e n. 87 del 2012, ordinanze n. 241 e n. 104
del 2011), ritenendo, altresì, legittimato ad agire e a resistere nei giudizi per conflitto
di attribuzione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, in quanto
competente a dichiarare definitivamente, nell’assolvimento della ricordata funzione,
la volontà del potere cui appartiene (ordinanza n. 60 del 1999);
che, sotto il profilo oggettivo, il ricorso è proposto a salvaguardia di prerogative
del Presidente della Repubblica che sono prospettate come insite nella garanzia
dell’immunità prevista dall’art. 90 Cost. e nelle disposizioni di legge ordinaria ad
essa collegate, a fronte di lesioni in assunto realizzate o prefigurate dalla Procura
della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo nello svolgimento dei
propri compiti;
che deve ritenersi dunque sussistente, allo stato – salvo il definitivo giudizio
all’esito dell’instaurazione del contraddittorio – la materia di un conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato la cui risoluzione spetta alla competenza di questa
Corte.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), il
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Presidente della
Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
ordinario di Palermo, con il ricorso indicato in epigrafe;
vista l’istanza di sollecita trattazione del ricorso formulata dalla Parte ricorrente;
visto il decreto, in data odierna, del Presidente della Corte costituzionale, con il
quale sono ridotti i termini del procedimento,
dispone:
- a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente
ordinanza al ricorrente Presidente della Repubblica;
- b) che, a cura del ricorrente, il ricorso e la presente ordinanza siano notificati al
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo entro il
termine di trenta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere
successivamente depositati, con la prova dell’avvenuta notifica, nella cancelleria di
questa Corte entro il termine di quindici giorni dalla notificazione, a norma dell’art.
24, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 19 settembre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente Gaetano SILVESTRI e Giuseppe FRIGO,
Redattori
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 settembre
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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Le intercettazioni rappresentano uno dei più importanti e discussi mezzi di ricerca delle prova tra quelli previsti e disciplinati nel Codice di procedura penale.
Si tratta di atti istruttori cd. a sorpresa, da effettuarsi, cioè, durante la commissione del reato e senza preavviso, in modo da raccogliere elementi di prova che altrimenti sarebbe impossibile acquisire.
Questo particolare strumento investigativo, per sua natura, finisce inevitabilmente con l’incidere sulla libertà di comunicazione dell’individuo, protetta dalla Costituzione (art. 15) e limitabile soltanto con atto motivato dell’Autorità giudiziaria.
Proprio per tale motivo, il Legislatore disciplina le intercettazioni mediante tutta una serie di limitazioni e cautele, al fine di preservare la sfera privata dell’individuo e garantire un giusto bilanciamento tra esigenze investigative e tutela della libertà personale.
Il Codice di procedura penale prevede tre tipi di intercettazioni: l’acquisizione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione (art. 266, comma 1, c.p.p.), l’acquisizione di colloqui tra presenti all’insaputa di almeno uno degli interessati (cd. intercettazioni ambientali, art. 266, comma 2, c.p.p.) e le intercettazioni del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici (posta elettronica, chat, ecc., art. 266 bis c.p.p.).
L’utilizzo delle intercettazioni richiede la presenza di determinati presupposti indicati dal legislatore.
Innanzitutto, l’uso delle intercettazioni è circoscritto solo ad alcune categorie di reati. In particolare, è consentita l’intercettazione quando si procede per delitti non colposi per i quali è prevista una pena superiore nel massimo a 5 anni ed, inoltre, per altri specifici delitti elencati nell’art. 266 c.p.p., quali, ad esempio, traffico di droga, contrabbando, minacce telefoniche, usura, pornografia minorile, abusiva attività finanziaria, abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato.
L’intercettazione richiede poi la preesistenza di gravi indizi di commissione di un reato ed, inoltre, deve porsi come assolutamente indispensabile non per l’avvio, ma per la prosecuzione delle indagini (art. 267 c.p.p.): l’indagine investigativa, in altri termini, non può trarre origine dalle intercettazioni, ma solo riscontro e impulso ulteriore.
Con particolare riferimento alle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, l’art. 266 c.p.p. specifica che, qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. (abitazione o altri luoghi di privata dimora), l’intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che si stia svolgendo attività criminosa.
L’art. 268, comma 3, c.p.p., infine, prevede che le operazioni di intercettazione possono essere compiute esclusivamente con impianti istallati presso la Procura della Repubblica e non, quindi, presso gli uffici della Polizia giudiziaria operante. Solo quando gli impianti della Procura risultino insufficienti e sussistono eccezionali ragioni di urgenza, il Pubblico Ministero (P.M.) può, con decreto motivato, autorizzare l’utilizzo di impianti del pubblico servizio o istallati presso gli uffici della Polizia giudiziaria.
L’intercettazione è atto proprio del P.M. È previsto, tuttavia, l’intervento del giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) con funzione di controllo, per assicurare la legalità dell’intercettazione e garantire gli opposti interessi dell’accusa, della difesa e dei cittadini estranei alle indagini ma, loro malgrado, coinvolti nelle intercettazioni.
In particolare, il P.M. richiede l’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione al G.I.P., che la concede con decreto motivato, dopo aver vagliato la sussistenza dei presupposti di ammissibilità sopra descritti.
L’autorizzazione ha la durata di 15 giorni e può essere prorogata per più volte successive, a richiesta del P.M.
Nel caso in cui si proceda per reati di criminalità organizzata, per disporre delle intercettazioni bastano sufficienti indizi di reità. Inoltre, in questo caso l’autorizzazione ha durata di 40 giorni e può essere prorogata, per più volte, per periodi di 20 giorni.
Quando vi è fondato motivo di ritenere che la procedura ordinaria appena descritta possa recare pregiudizio alle indagini, il P.M. può emettere lui stesso il decreto motivato, ma questo ha natura provvisoria, dovendo essere convalidato dal G.I.P. entro le successive 48 ore (art. 267 c.p.p.), pena la caducazione piena ed assoluta del decreto e la inutilizzabilità delle intercettazioni eventualmente già acquisite.
Le intercettazioni fin qui descritte non vanno confuse con le cd. intercettazioni preventive, le quali prescindono dalla commissione di un reato in corso: esse, infatti, possono essere utilizzare per la prevenzione di reati di criminalità organizzata o con finalità di terrorismo (Legge 356/92).
Le intercettazioni preventive possono essere autorizzate direttamente dal Procuratore della Repubblica, senza l’intervento del giudice in funzione di garanzia ed, inoltre, non possono essere utilizzate come prove nel processo, avendo un mero carattere informativo per la Polizia giudiziaria e il P.M.